Elezioni amministrative e referendum sulla giustizia: tra popolo “silente” e riconferme di scenari

Cosa ci suggerisce il primo turno nei comuni e il voto referendario

C’è chi parla di disinteresse fisiologico su argomenti così tecnici come quello della giustizia, e chi invece lancia un grido di allarme per una grave “anestetizzazione” democratica degli italiani. Comunque la si pensi, il misero 20,9% di aventi diritto che si è recato alle urne per i cinque referendum del 12 giugno segna un record assoluto in termini di diserzione elettorale nella nostra storia repubblicana.

Mai si era andati così in basso in termini di partecipazione e di mobilitazione referendaria, ma quali conclusioni possiamo razionalmente tratte da questo esito, sia in termini di astensionismo sia di risultati emersi dallo spoglio?

Sicuramente la complessità tecnica dei quesiti ha giocato un ruolo determinante. È un dato di fatto che i più alti livelli di partecipazione ai referendum si sono registrati su temi di natura etico-sociale e valoriale – quali, ad esempio, l’interruzione di gravidanza e il divorzio – ed è perciò ragionevole pensare che i cittadini abbiano razionalmente scelto di non esprimersi su temi di cui solo gli addetti ai lavori hanno sufficiente competenza. Se è opportuno che su queste materie intervenga il Parlamento, l’unico messaggio minimamente concreto che il legislatore può cogliere da quello che resta un flop partecipativo riguarda la separazione delle carriere dei magistrati, la valutazione del loro operato da parte di più soggetti e il contenimento delle cosiddette “correnti” interne alla magistratura che hanno infuocato il dibattito negli anni precedenti. Tutti temi contenuti nei tre quesiti che hanno fatto registrare i migliori risultati per il “Sì”.

Quali ripercussioni lascia tale consultazione sugli attori politici? Premesso che la campagna referendaria è passata complessivamente sottotraccia sia dal punto di vista dell’informazione che dal sostegno generale da parte dei partiti dell’arco costituzionale, è indiscutibile la cocente delusione della Lega, unica forza politica che ha sostenuto e promosso assieme ai Radicali questi referendum, anche attraverso il sostegno alla raccolta delle firme. Una battuta di arresto non da poco per un leader come Matteo Salvini, che in passato ci aveva abituato alla sua capacità di mobilitazione, di cui gli altri componenti del centrodestra potranno tenere conto quando si tratterà di stabilire i nuovi rapporti di forza all’interno della coalizione.

Proprio sui nuovi rapporti di forza è il caso di addentrarsi nell’analisi della tornata amministrativa svoltasi in concomitanza con i referendum, la quale ha consolidato ulteriormente, e in tutto il Paese, quel “sorpasso” di Fratelli d’Italia sul Carroccio, già in parte manifestatosi alle consultazioni dell’autunno scorso. Una tendenza molto interessante da considerare, soprattutto alla luce del crescente astensionismo nelle regioni considerate “locomotive” d’Italia. Emilia-Romagna, Lombardia, Veneto, Piemonte e Toscana con affluenze sotto la soglia del 60% unitamente alla perdita di consensi di un partito storicamente radicato nel Settentrione come la Lega, segnano una generale perdita di fiducia tra i ceti produttivi del Nord Italia, i quali tendono a ritrovarsi sempre più “orfani” politicamente. Chiaro segnale di un vuoto politico che qualcuno dovrà essere in grado di colmare.

Per quanto concerne il fronte del centrosinistra, se è conclamato che il Partito Democratico resta il perno centrale su cui si potrà reggere una possibile coalizione – seppur molto variegata – risulta altrettanto vero che un terzo polo definito per semplificare liberal-riformista si sta facendo strada, quantomeno a livello locale. Gli esempi di Dario Costi a Parma, Americo Di Benedetto a L’Aquila e del ritorno di Flavio Tosi a Verona sono a tal proposito calzanti e risulterà parecchio interessante capire su quali candidati si butteranno questi elettori ai ballottaggi di domenica 26 giugno. Saranno tutti segnali che immaginiamo torneranno utili al Segretario dem Enrico Letta per ricomporre il complesso rebus del “campo largo”, considerando tra l’altro una ormai conclamata crisi di consenso che sta interessando il Movimento 5 Stelle e il suo capo politico Giuseppe Conte, sempre più “tigre di carta” della politica italiana.

Per questo primo turno è tutto, e per chi ha avuto la pazienza di leggere fino qui non mancheremo di risentirci anche dopo il ballottaggio per trarre le opportune conclusioni.


,