Non abbiamo fallito, ma da qualche parte abbiamo sbagliato

È la fine della sesta ora, il momento in cui le scale si affollano di studenti che lottano fra loro per arrivare primi alla fermata e ottenere un posto sull’autobus. Lavoro in questa scuola da un anno scarso, ma ho già fatto in tempo ad abituarmi ai ritmi della sua fauna. Sbuco fuori dalla mia aula e, qualche metro più in là, trovo una collega ferma davanti a una classe. Osserva l’interno come si osserva un incidente d’auto: con interesse e distacco infiacchito dall’esperienza. Mi chiama facendo cenno con la mano, vuole che vada a vedere. La raggiungo, guardo: banchi ribaltati, buchi nel muro e un computer scolastico probabilmente da sostituire.

“Non ve lo meritate! Il diritto allo studio, nessuno di voi lo merita!”. Questo è il mio primo pensiero, mentre quello successivo si concentra sul rimpolpare quello sconforto latente che ti porta a pensare: “Forse, davvero, non ne vale la pena”. Per fortuna queste taciute proclamazioni, ammantate di disfattismo e austerità, vengono seguite da una riflessione: “Non abbiamo fallito, ma da qualche parte abbiamo sbagliato”.

Doverosa premessa: il disagio abita ciascuno di noi in maniera differente e viene esternalizzato di conseguenza. Pretendere di abbracciare “il malessere di una generazione” grazie a una pagina di word è pura utopia; perciò, starà a voi declinare le parole di questo articolo in base alla realtà che vi circonda.

La biografia delle persone responsabili del vandalismo sopracitato verte su un gioco dettato dai concetti di vuoto e pieno: questi ragazzi sono stati lasciati soli (ecco il vuoto) a colmarsi con le idee e i valori che la giungla sfrenata di un capitalismo tutto volto all’immagine, a discapito del contenuto, ha lasciato loro in eredità (ed ecco il pieno). Ma da chi sono stati lasciati soli? E da chi sono stati invece indottrinati? La gara delle responsabilità è una tentazione fin troppo forte, ma non possiamo prescindere dal vedere un simile atteggiamento come risultato di una serie di eventi che, sommandosi, creano un unico grande agglomerato di sofferenza. Noi (sì, dobbiamo usare il “noi”) abbiamo la testa colma, satura di vuoto. Carica di tutto quel niente che indossiamo, ascoltiamo, vediamo, assorbiamo e viviamo continuamente. Esistiamo coperti da questa patina di reale che con il reale vero non c’entra nulla: siamo quello che possediamo, quello che abbiamo nelle tasche e nelle borsette. Siamo il nuovo paio di Nike, il nuovo giubbotto di Gucci, la piattaforma social del momento. E sotto? Cosa vogliamo far trovare sotto? Ma soprattutto, come possiamo insegnare a conoscere il sotto quando anche noi ci rifacciamo al sopra, alla superficie, per risolvere i nostri problemi?

Forse, il modo migliore per far conoscere il sotto è mostrare che ne esiste uno.

Ma come interfacciarsi con il disagio prorompente di chi distrugge per farsi ascoltare? Entriamo nei loro contesti. Entriamo nei loro contesti per dimostrare che ne esistono altri. Facciamo percepire la classe come una stanza sicura, un luogo in cui, oltre a fare lezione, è possibile crescere. Permettiamogli di capire che il futuro dipende in gran parte da noi stessi e che, anche quando ci sentiamo imprigionati nel peggiore degli impasse, spesso abbiamo gli strumenti per eluderlo.

È doveroso, da parte di tutti noi, educatori e non, essere le figure di riferimento che quell’aula rovesciata chiedeva a gran voce.