La sfida dell’interculturalità: prospettiva di una seconda generazione

“In un mondo in subbuglio non resta che disperarsi” direbbe qualcuno. 

C’è sempre tempo per abbandonarsi allo sconforto, ma fino ad allora possiamo provare a riflettere insieme.

Vorrei brevemente meditare con voi su cosa vuol dire essere una persona immigrata in Italia, in special modo di origine culturale marocchina. Vorrei mostrare la necessità che abbiamo di riflettere sulla convivenza, l’importanza di applicare strategie che ci portino su una strada diversa da quella che abbiamo visto realizzarsi in Francia.

Tra qualche decennio ci guarderemo indietro e ci accorgeremo che le decisioni prese in questi anni sono state determinanti per la salute delle nostre società, determinanti per la sopravvivenza della rabbia, l’emarginazione e il degrado.

Il coinquilino non previsto

“Un marocchino arriva all’aeroporto di Milano Malpensa e uscendo per strada nota per terra una banconota da 10 euro, fa per piegarsi e raccoglierla ma poi ci ripensa e si dice: No dai, inizio a lavorare domani”.

In seguito alle gravi siccità avvenute tra gli anni 80 e 90 nelle campagne marocchine, ondate mai viste di giovani contadini riempirono le città che posti di fronte alla realtà opprimente della disoccupazione iniziarono a sognare l’Europa. I più propositivi pensavano alle università francesi,  mentre gli altri pensavano ai campi agricoli e ai mercati d’occidente. Il feedback di chi ci era già stato era meraviglioso tra gioielli, macchine, vestiti, vanti sui grandi successi ottenuti. Certo, arrivarci non era facile, e nemmeno troppo legale, ma le scorciatoie non mancavano e tutti avevano quel cugino da raggiungere.

E fu così che decine di migliaia di giovani che fino a quel momento avevano conosciuto solo le piccole realtà delle campagne medievali marocchine, senza scuole o elettricità, attorniate dalla religione e dalla superstizione, iniziarono a migrare nel frenetico e laico mondo occidentale.

E’ inutile dire che la realtà in cui si ritrovarono non era quella predetta, non c’era il benessere o i successi ammirabili ad aspettarli, al contrario c’erano fughe dalle forze dell’ordine, lavori umilianti, case popolari, solitudine. Il macigno della responsabilità di essere figli/e o mariti da cui la sopravvivenza economica della famiglia dipende non dava scampo, ma tra analfabetismo, povertà, emarginazione e soprattutto clandestinità, in molti si arresero preparandosi all’umiliazione dell’essere tornati più poveri di prima dall’El Dorado. Tutti gli altri invece, si buttarono in una vita di stenti per guadagnare il denaro sufficiente a tornare in patria dicendo “ce l’ho fatta!” (anche solo durante la vacanza estiva magari, sperperando i risparmi e alimentando il sogno europeo).

Il desiderio mai esaudibile di collezionare sufficienti ricchezze e poi fare ritorno a casa disincentivò la riflessione su un progetto duraturo e stabile in Europa, ostacolò il desiderio di integrarsi preparando le basi per grandi difficoltà identitarie delle prime figlie e figli.

Straniere/i a casa propria, strattonate/i tra due culture che non hanno intenzione di trovare una sintesi e legate/i ai sogni di rivalsa economica dei genitori.

È così che il disagio dei genitori non rifugge dal ricambio intergenerazionale e casa diventa luogo di pressione e responsabilità economica. L’insoddisfazione e gli stenti alimentano rabbia e frustrazione che trovano facile sfogo nell’ostilità verso l’ospite di casa, e sollievo nel radicalismo culturale e religioso.

La rivendicazione di una forte identità nazionale funge da collante in risposta al bisogno di una dimensione sociale di appartenenza, esaspera il processo di ghettizzazione, polarizza la prospettiva culturale.

Il percorso di integrazione, che a differenza dell’assimilazione richiede uno sforzo da entrambe le parti, significa includere la cultura altra nella propria concezione di Noi. Rendere familiare ciò che è straniero attraverso un processo di riconoscimento, valorizzazione e inglobamento. Rendere la propria casa adatta non solo a chi pensa e parla come noi, ma a chiunque.

Non serve tolleranza, serve coinvolgimento

Il presagio di un incontro tutto sommato spiacevole ed evitabile, è figlio dell’abitudine a tollerare piuttosto che includere, racconta di una divisione diffidente tra un noi e un loro che non lascia spazio all’amicizia. Per quanto possa essere un atteggiamento spontaneo e comprensibile è evidente la natura sterile di questo sguardo.

Le nostre città si stanno facendo mano a mano più complesse con l’emersione di nuove identità che chiedono spazio nel discorso, e noi possiamo ignorare il problema tollerandoci a vicenda, oppure possiamo allargare i confini dell’arena in modo tale che ci sia spazio di respiro per ogni persona.

Possiamo sviluppare un dialogo interculturale, imparare a condividere gli spazi intimi e soprattutto, dare vita a una progettualità collettiva.

La chiave di volta è proprio questa: le comunità si devono sentire responsabili e coinvolte nella costruzione degli spazi e dei percorsi futuri. Le diverse voci devono essere interpellate perché ragionino assieme sulla società che vorrebbero, nel rispetto delle proprie specificità e di quelle altrui.

Questo però può accadere solo in un contesto in cui le comunità decidono consapevolmente di uscire dagli spazi sicuri della normalità e provano ad incontrarsi a metà strada. Serve il coraggio di capire che gli spazi in cui viviamo appartengono a tutte le identità che lo vivono, che siano appena arrivate o meno, e perciò, è necessario considerare tutte le opinioni come pari alle proprie.

Più concretamente questo vuol dire riflettere insieme su strategie per coinvolgere anche chi non ha la cittadinanza (o è minorenne o pregiudicato) e calare il dialogo in una dimensione in cui tutte/i possano uscirne validate/i. Ma non solo, tutto ciò non sarebbe abbastanza senza un percorso di responsabilizzazione alla cura reciproca, senza una solidarietà propositiva tra i diversi attori. E per fare questo bisogna rendere ogni persona protagonista della costruzione del progetto comune, facendola sentire importante e meritevole di fiducia.

Mi piace pensare le differenze come occasione di capire meglio sè stesse/i e accogliere nuovi valori, assorbire nella propria prospettiva un termine di paragone per capire i propri limiti e le proprie opportunità. Il confronto con altre culture potrebbe darci l’occasione di comprendere che ciò che diamo per scontato non lo è, e quindi lo  si può ridiscutere.

So quanto è idealista il mio discorso, ma se non ci impegniamo per stringerci in un dialogo fraterno, i muri che ci separano si alzeranno e la diffidenza porterà nuove vittime.

Ogni cultura porta avanti una riflessione su come convivere positivamente, bagagli dalle diverse radici ma con la stessa intenzione, su cui fare leva attraverso la conoscenza reciproca per costruire una “comunità delle comunità”.

Tutte le comunità devono fare dei passi le une verso le altre, uscire dalle proprie zone di comfort e incontrarsi a metà strada abbandonando la rigidità dei confini culturali ed etnici ed elaborando un’idea di “Noi” ampia, legata più alla convivenza sul territorio piuttosto che a valori, tradizioni o origini.

In un mondo in subbuglio… non ci resta che cooperare, con cura e stima reciproca.


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