Il complicato rapporto tra l’Italia, il fascismo e il suo ricordo

Perchè il nostro Paese non ha mai fatto apertamente i conti con il proprio passato autoritario e quali sono le conseguenze che oggi permangono nella nostra società?

I recenti fatti che hanno visto protagonisti, a Roma, esponenti di Forza Nuova hanno messo in evidenza, se mai ce ne fosse stato bisogno, l’esistenza di un’anima neofascista che, a distanza di quasi cent’anni dalla marcia su Roma, che può considerarsi fondativo del fascismo in Italia, persiste nel voler riconoscere quello stesso periodo come l’apice della nostra storia nazionale. Le domande che possiamo porci dinanzi a questi fatti sono molteplici, io ne analizzerò due: la prima, di carattere più “popolare” si riferisce al perché una certa “cultura fascista” sia riuscita a sopravvivere e ad alimentarsi di nuovi temi e ideologie; la seconda, di carattere invece più istituzionale, tratta delle lacune strutturali che hanno, negli anni, permesso a correnti neofasciste di proseguire la loro attività.

Il popolo italiano è forse tra i più eterogenei che vi siano nel mondo, tant’è che alcuni sociologi hanno persino messo in dubbio l’esistenza di un qualcosa definibile come tale: troppo marcate le differenze culturali, sociali ed economiche che pervadono il nostro Paese. Che queste differenze siano reali o solo parvenze poco importa, hanno invece rilevanza quei momenti e quelle circostanze che rendono il popolo italiano più unito che mai, come i successi sportivi o il ricordo di epoche le quali, nell’immaginario collettivo, rappresentano l’apogeo italiano nella storia (ad esempio l’epoca romana o il Rinascimento).

Non si può certo dire che il fascismo unisca la maggior parte degli italiani, ma non si può neanche far finta di niente dinanzi a un fenomeno che i fatti di Roma confermano essere sempre più superficiale all’interno della società italiana. Più ci si allontana temporalmente dal ventennio fascista, sempre più il fascismo assume, nell’immaginario collettivo, un valore simbolico di un’Italia “forte e bella”, in un momento nel quale il nostro Paese è invece in estrema difficoltà.

Per ricollegarsi alle recenti azioni neofasciste e dimostrarne l’insensatezza, basti pensare che la protesta, esplosa poi nel disordine pubblico, si muoveva dalla convinzione che gli attuali mezzi e le attuali restrizioni, adottate dal governo per contenere la pandemia e per favorire la ripresa del Paese, rappresentino provvedimenti dittatoriali nei confronti della società. Può sembrare banale ma all’interno dello stato dittatoriale, che loro stessi esaltano, la possibilità di poter dissentire nei confronti del governo non era concessa in nessuna sua forma. Dunque, il fatto stesso di poter protestare dovrebbe far comprendere a quei “pochi”, i quali vivono nel mito di uno stato fascista, che nulla di tutto ciò che è stato loro permesso di fare sarebbe potuto accadere in uno stato non democratico.

La ragione “istituzionale” è invece più breve. Al termine del secondo conflitto mondiale la neonata Repubblica italiana eliminò esplicitamente la possibilità che il partito fascista potesse tornare in vita (Disposizioni transitorie e finali della Costituzione,XII), ma non si preoccupò mai (almeno fino al 1970) di smantellare la società e le istituzioni fasciste.

Per fare un parallelismo con la situazione tedesca, in Italia non vi fu mai un processo di Norimberga, che avrebbe spazzato via lo stato fascista nella sua totalità. Al contrario di quello che accadde nella Germania occupata dalle forze alleate, le quali si posero come primo obiettivo quello di individuare le responsabilità individuali di coloro che avevano fatto parte del reich nazista, l’Italia riuscì, nonostante la sconfitta nel conflitto armato, a gestire internamente i rapporti con i gerarchi del decaduto stato fascista.

La scelta italiana fu quella della concordia ordinum, ovvero della pacificazione sociale dopo due anni di guerra civile che aveva visto, nei territori occupati, lo scontro tra repubblichini e partigiani. La soluzione definitiva adottata dal governo provvisorio divenne nota come “Amnistia Togliatti”, dal momento che Palmiro Togliatti ricopriva al momento la carica di “Ministro di grazia e giustizia”. Nonostante la ferrea opposizione al provvedimento di amnistia del governo De Gasperi, il quale reputava il provvedimento troppo filomonarchico, il 2 luglio 1946 Togliatti firmò l’amnistia.

I gerarchi fascisti e tutti coloro che avevano collaborato con la Repubblica Sociale Italiana non furono dunque sottoposti a processo e poterono “rientrare in società” adeguandosi alle nuove rappresentanze politiche. Il caso principe riguarda certamente Giorgio Almirante: prima funzionario della Repubblica Sociale Italiana e redattore capo della rivista antisemita “La difesa della razza”, dal 1948 fu deputato della Repubblica in qualità di rappresentante del Movimento Sociale Italiano (partito di “ispirazione” fascista).

Questa promiscuità tra istituzioni repubblicane ed ex esponenti del partito fascista non ha certamente favorito il superamento dell’epoca del ventennio da parte della società italiana.

Questo ha permesso, col passare del tempo, rivalutazioni parziali e progressivamente più positive dell’esperienza fascista, tanto da alimentare non un nuovo partito fascista, ma una nuova forma dei fascismi italiani capaci di far proprie nuove ideologie e nuove forme di violenza che però, a differenza del passato, è capace di velarsi sotto altri pretesti per poi esplodere con nuova brutalità, così come i recenti fatti hanno evidenziato.

Al termine della mia breve analisi un’ultima domanda può sorgere spontanea: come contrastare il fenomeno del neofascismo e ristabilire ovunque il culto per la libertà e la democrazia? La risposta a questo quesito, la quale non può certamente essere univoca, passa però inevitabilmente attraverso il valore e la qualità dell’istruzione individuale di ognuno di noi. Deve essere la scuola a recuperare l’originaria funzione di educatrice sociale oltre che tecnica: un essere umano capace di grandi opere e grandi conquiste tecnologiche, incapace però di giudicare criticamente quello che accade nella realtà in cui lui stesso vive, perde gran parte del proprio valore.


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