Come funziona il sistema elettorale americano?

In occasione dell’Election Day, ecco un piccolo tutorial sul funzionamento della democrazia a stelle e strisce.

Oggi è il 3 novembre 2020: l’Election Day negli Stati Uniti. Le presidenziali americane che si svolgono il martedì successivo al primo lunedì di novembre, ogni quattro anni, sono un evento che immancabilmente finisce per catturare le prime pagine dei giornali e l’attenzione dei media di tutto il mondo. Con interesse crescente si monitorano gli appuntamenti elettorali dei due principali candidati alla Casa Bianca: Donald Trump e Joe Biden. Tanto più nel contesto attuale, dove i capi di Stato e di governo sono chiamati a decisioni difficili e responsabilità, se possibile, ancor più faticose nel far fronte alla pandemia scatenata dal virus Covid-19, se ne seguono i dibattiti e i confronti televisivi con trasporto e partecipazione: parliamo, del resto, di una delle democrazie più importanti del mondo occidentale e di una superpotenza economica e militare, gli Usa, attori imprescindibili sul palcoscenico della politica internazionale.

Anche i nostri telegiornali e le pagine web delle principali testate giornalistiche italiane dedicano interi “speciali” al tema delle elezioni americane e spopolano schemi e video illustrativi del loro complesso sistema elettorale: sembra doveroso dunque spendere qualche parola per tentare di renderne accessibile la comprensione, partendo dalla premessa che si tratta di un sistema le cui radici storiche, giuridiche e costituzionali sono ben diverse dalle nostre. Per questa ragione i meccanismi che sottendono l’elezione del Presidente ci appaiono, il più delle volte, quantomeno poco familiari.

Due righe soltanto per inquadrare velocemente e a grandi linee il loro sistema politico: gli Stati Uniti sono, per espresso volere della Costituzione del 1787, una Repubblica federale composta da cinquanta Stati. I tre poteri esecutivo, legislativo e giudiziario sono indipendenti tra di loro e concepiti secondo una logica di checks and balances, ossia, potremmo dire, di “pesi e contrappesi”, il cui obiettivo è far sì che vi siano forme di controllo reciproco e costante tra di essi. La guida dell’esecutivo è affidata al Presidente, che nomina ministri e funzionari federali dietro ratifica del Senato. Il potere legislativo è in mano ad un Congresso bicamerale, composto dalla Camera dei Rappresentati, formata da 435 membri (il cui numero non è sancito dalla Costituzione, ma deciso suddividendo i rappresentati in base alla popolazione di ogni Stato) che restano in carica due anni, e dal Senato, costituito da 100 membri (questa volta la previsione ha natura costituzionale: 2 membri per ogni Stato, restano in carica 6 anni). Senza addentrarci ulteriormente nell’analisi della ripartizione delle competenze tra le due camere e tralasciando la descrizione del sistema giudiziario americano, un altro punto che è utile tenere a mente riguarda la scena partitica americana, da sempre governata da due grandi schieramenti, il Partito Repubblicano e quello Democratico. Altri partiti minori talvolta concorrono proponendo un candidato Presidente, storicamente, però, non avendo mai ottenuto nessuna vittoria.

Ora, il sistema elettorale per la votazione del Presidente è, da manuale, detto indiretto. Significa semplicemente che non sono i cittadini a votare direttamente il candidato alla Casa Bianca. La Costituzione americana prevede infatti l’esistenza di un organo, l’Electoral College, a cui è affidato il compito di realizzare questa votazione. L’Electoral College si compone attualmente di 538 grandi elettori: in ogni Stato, ogni partito seleziona un numero di grandi elettori pari al numero di rappresentanti e senatori attribuiti a quello Stato al Congresso, cui si aggiungono 3 delegati del District of Columbia. Il metodo per decidere i grandi elettori è peculiarità di ogni Stato: di consuetudine, sono personalità che hanno partecipato attivamente alle campagne elettorali. L’esistenza dell’Electoral College si deve alla volontà dei Padri Costituenti di trovare un compromesso tra l’esigenza di evitare, da un lato, che gli Stati più popolosi dominino la politica americana (cosa che sarebbe accaduta con l’elezione presidenziale diretta) e dall’ altro, quella di attribuire comunque un peso maggiore agli Stati più grandi. Dunque, ciò che accade il giorno delle elezioni è che in ogni Stato il candidato Presidente che vince si aggiudica tutti i grandi elettori di quello Stato, secondo un sistema che è detto maggioritario secco o “the winner takes all”.

Fanno eccezione soltanto il Maine e il Nebraska che adottano invece un sistema proporzionale. Chiaramente i grandi elettori hanno precedentemente pubblicamente dichiarato quale candidato intendono sostenere: anche se non tutti gli Stati vincolano legislativamente i grandi elettori alla loro dichiarazione, nella realtà i casi, potremmo dire, di tradimento sono davvero inusuali.

Per vincere, il candidato Presidente deve ottenere la preferenza di almeno 270 grandi elettori: questi si riuniscono il primo lunedì dopo il secondo mercoledì di dicembre, di fatto per quella che risulta essere soltanto una formalizzazione del voto.

Uno scenario interessante e alternativo previsto dal XII emendamento è il cosiddetto scenario 1824, che prende il nome dalle elezioni presidenziali tenutesi, appunto, nel 1824 (un caso analogo si ebbe solo nel 1800) e si attiva quando nessuno dei candidati alla presidenza raggiunge il magic number, ossia la maggioranza assoluta all’Electoral College. In tal caso è previsto che il voto per l’elezione del Presidente passi alla Camera dei Rappresentanti, dove tuttavia viene attribuito un voto ad ogni Stato, mentre l’elezione del Vicepresidente spetterà al Senato, dove invece viene attribuito un voto a ciascun senatore.

Il sistema elettorale americano, così concepito, presenta grosse criticità laddove mette gli Stati più grandi (e popolosi) nella condizione di essere sottorappresentati. Di conseguenza può accadere che nonostante la maggioranza assoluta dei voti popolari, un candidato perda le elezioni. Di fatto, questa eventualità si è verificata anche in occasione dell’ultima tornata elettorale, quella del 2016, che ha portato Trump alla Casa Bianca nonostante la Clinton avesse raccolto oltre 3 milioni di voti in più. Questo deficit che può venire a crearsi si capisce tanto meglio se si tiene presente che più della metà della popolazione totale degli Stati Uniti è radunata nei nove Stati più grandi (quindi California, New York, Texas, Florida, Pennsylvania, Illinois, Ohio, Georgia e North Carolina), mentre negli altri quarantuno Stati è presente poco meno dell’altra metà della popolazione statunitense. Un correttivo potrebbe essere apportato rivalutando il peso da attribuirsi a ciascuno degli Stati federali, ma questo richiederebbe una modifica della Costituzione, che essendo rigida pretende meccanismi di revisione aggravati: nella pratica risulta molto complesso ottenere al Congresso le maggioranze necessarie a realizzare tali cambiamenti.

Fonti e approfondimenti:

Il Sole 24 Ore

Repubblica

La Stampa

Tuttoamerica.it

US House of Representatives

Eric Digests


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