Gina Borellini e Umbertina Smerieri: due partigiane “ad là Basà”

La storia di due donne che fecero la Resistenza.

“La Resistenza non fu un fenomeno militare, come erroneamente si crede. Fu un movimento politico, democratico e civile straordinario. Una presa di coscienza politica che riguardò anche le donne.”

Lidia Menapace

Oggi si conclude la rubrica di Piazza del Mercato che, in cinque giorni, ci ha fatto conoscere le storie di alcuni protagonisti della Resistenza italiana durante la Seconda guerra mondiale. La frase che precede il mio testo ovviamente non è casuale, così come non è casuale la scelta della sua autrice: Lidia Menapace, donna simbolo della resistenza al nazifascismo, spentasi pochi mesi fa.

La sua citazione mette di fronte a una realtà inconfutabile: la Resistenza ha aperto le strade della democrazia in Italia; ma non solo: ha anche iniziato quel lungo processo di emancipazione del genere femminile, che ancora oggi è in atto. Seguendo questa “traccia”, nell’episodio odierno, abbiamo deciso di dedicarci all’approfondimento di due donne simbolo della Resistenza nel nostro territorio. Due storie iconiche, che si riflettono irrimediabilmente nella contemporaneità grazie a esempi granitici di lotta, dedizione, passione, sacrificio e uguaglianza sociale. Due vicende completamente diverse tra loro, ma allo stesso simili. Le protagoniste di oggi sono Gina Borellini, già deputata della Repubblica Italiana dal 1945 al 1963, e Umbertina Smerieri, assassinata dai fascisti il 23 marzo 1945, un mese prima della liberazione del nostro Paese.

Gina Borellini è originaria di San Possidonio, dove nasce nel 1919 da una famiglia di agricoltori. Deve la sua formazione antifascista al marito Antichiano, che sposa nel 1935, e che condivide i suoi stessi ideali politici; nel ‘45 verranno arrestati e torturati dai fascisti, in cerca di informazioni. Il marito sarà sempre al suo fianco, fino al 19 marzo 1945 quando verrà fucilato in Piazza d’Armi a Modena, colpevole di essere un partigiano. Nonostante il grave lutto, la Borellini non molla la lotta e, con il nome di battaglia “Kira”, entra a far parte della Brigata Remo e organizza Gruppi di difesa della donna, a Concordia, simbolo dell’apporto femminile nella lotta contro il regime e in favore delle rivendicazioni femminili.

Gina, inoltre, assume il ruolo di ispettrice e il grado di capitano. Tra gli aneddoti più iconici che gravitano intorno a Gina Borellini c’è quello dello scontro con la Brigata Nera Pappalardo a San Possidonio il 12 aprile del ‘45, nel quale la partigiana viene gravemente ferita a una gamba. Per non intralciare la lotta dei compagni, Gina rifiutò i soccorsi, riuscendo da sola a bloccare la grave emorragia e a raggiungere l’ospedale di Carpi, dove venne però costretta a subire l’amputazione della gamba sinistra. Durante il ricovero fu inoltre riconosciuta dalla polizia fascista che la sottopose ad estenuanti interrogatori. Se non fosse stato per l’insurrezione e la Liberazione, probabilmente Gina Borellini sarebbe stata fucilata come il marito.

Il suo destino è diverso: il 17 marzo del ‘46 viene eletta al consiglio comunale di Concordia, nelle file del PCI, mentre, Candidata col Fronte democratico popolare alle politiche dell’aprile 1948, raccoglie oltre 70.000 preferenze diventando una delle 49 donne del Parlamento italiano nella prima legislatura (pur non avendo nemmeno trent’anni!). Alla Camera resterà per tre legislature, facendo parte della IVª Commissione difesa, portando avanti con passione le stesse battaglie condotte sul piano locale e su quello dell’associazionismo: la tutela della maternità, l’applicazione della parità dei diritti e della parità delle retribuzioni tra uomo e donna, l’assistenza ai bambini vittime di catastrofi naturali e la prevenzione contro malattie infettive in contesto scolastico sono solo alcune delle tematiche che ricorrono negli interventi parlamentari e nelle sette proposte di legge a cui la Borellini partecipò; inoltre, pur essendo a Roma, il legame con il suo territorio non si spense mai.

Il gesto più iconico della sua carriera politica è quello legato all’Eccidio delle Fonderie Riunite di Modena nel 1950 in cui, durante lo sciopero indetto dalla CGIL per protestare contro i licenziamenti di oltre 500 operai metalmeccanici, gli agenti della Polizia spararono contro i manifestanti per impedire l’occupazione della fabbrica, uccidendo sei operai e ferendo circa 200 persone. In questa situazione, la Borellini espresse la sua indignazione alla Camera dei deputati con un gesto plateale: si alzò dallo scranno, scese ai banchi del Governo e lanciò le foto degli operai morti in faccia all’allora Presidente del Consiglio De Gasperi. Un gesto rabbioso, ma pieno di passione, simbolo di una politica che in Italia non c’è più. Gina Borellini, inoltre, fece anche da tramite fra una delle famiglie vittime con Palmiro Togliatti e Nilde Iotti, che adottarono la piccola Marisa Malagoli.

In seguito, venne eletta consigliere della Provincia di Modena (1951-1956) e del Comune di Sassuolo (1956-1960). Accanto alla doppia militanza nel PCI e nell’UDI (Unione Donne Italiane), Gina Borellini fu per trent’anni Presidente dell’ANMIG (Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra) e nel 1981 le venne assegnata la Presidenza onoraria dell’ANPI. A coronamento di una vita impegnata contro ogni forma di discriminazione e di violenza in difesa della pace, il 2 giugno 1993 le venne conferita l’onorificenza di Commendatore della Repubblica Italiana. Si spense nel 2007.


Completamente diversa e molto più crudele, è invece la vicenda della seconda protagonista di oggi: Umbertina Smerieri, nata a S. Giustina Vigona, località mirandolese, l‘8 Agosto 1920. La sua era una famiglia contadina, e la loro condizione economica ritmava in base al loro rapporto di lavoro col proprietario della terra. Con la presa del potere e con l’instaurazione della dittatura fascista, le aspettative dei terrieri, che sostennero in larga maggioranza Mussolini, furono ben ripagate dalla sua politica agraria, tesa a incrementare la rendita fondiaria (e al conseguente inasprimento delle condizioni di vita e di lavoro dei contadini e dei braccianti).

Nonostante tutto, Umbertina cresce in una famiglia antifascista composta da lei, i genitori e tre fratelli che, dopo l’ingresso in guerra, furono costretti ad imbracciare le armi. Sono anni di lutti e dolori: c’era il podere da mandare avanti senza i fratelli, c’era l’incertezza delle poche notizie di loro, il desiderio di rivederli, e la costante paura dei bombardamenti. ln quegli anni Umbertina si innamorò ed ebbe un figlio, ma occorreva, ora, che lei fosse autonoma e non gravasse più sulla famiglia, occorreva trovare un lavoro. Per questo si trasferì a Mirandola all’inizio del 1943.

La situazione italiana sul fronte, però, andava via via aggravandosi e con l’armistizio dell’8 settembre, confusione, sgomento e l’incertezza sembrano travolgere ogni cosa, ogni prospettiva. Dei fratelli Smerieri ritornarono a casa solo Angelo e Ruggero, mentre Antonio fu fatto prigioniero in Germania. Nella zona, frattanto, la Resistenza andava organizzandosi e il PCI, su tutti, era riuscito ad organizzare una più radicata e diffusa rete sul territorio. Nel frattempo, Umbertina inizia a lavorare alla caserma fascista di Mirandola: sicuramente una scelta obbligata, per niente semplice, soprattutto per chi ha sempre cercato di prendere le distanze dal fascismo. Durante il lavoro nella caserma, Umbertina ebbe modo di raccogliere, tramite discorsi e comportamenti la realtà dell’ideologia fascista: il disprezzo per i lavoratori e per il popolo, l’arroganza e l’ottusa violenza; sempre di più Umbertina comprendeva la scelta dei fratelli di unirsi ai partigiani. Mentre la loro casa, a Santa Giustina Vigona, si stava trasformando poco a poco in un rifugio, la strada della ragazza andava incontro ad un bivio: bisognava decidere da che parte stare.

In quel periodo conobbe “Caris”, comandante del nono distaccamento del Battaglione “Carlo”, con il quale cominciò a collaborare, rubando delle pistole nella caserma nella quale lavorava. Il furto di quelle armi portava in sé il segno di una scelta: da allora iniziò a fornire informazioni precise su tutto quello che succedeva, via via la sua attività di informatrice andava intensificandosi. Ora Umbertina comprendeva il senso di quella battaglia, che sentiva ormai sua, e quando i fratelli le chiesero di diventare staffetta del loro GAP (Gruppo di Azione Patriottica), accettò; da allora il suo nome di battaglia fu “Marisa”. Continuò la sua attività di staffetta, cominciando a lavorare non solo per il GAP ma per tutti quelli del distaccamento. Si spostava da Mirandola a Fossa, a Concordia, a S. Possidonio in bicicletta sotto qualsiasi tempo e sotto qualsiasi rischio. Essere scoperti significava la cattura, la tortura, spesso la morte.

Nonostante le possibili conseguenze, passò quasi tutto l’inverno del ‘44 distribuendo armi a tutte le varie GAP del distaccamento e, mentre l’azione partigiana nelle zone andava risolvendosi felicemente, si era ormai al culmine dello sforzo e dell’impegno. La notte tra il 23 e il 24 febbraio una coalizione di GAP della prima e seconda zona attacca la caserma di una Brigata Nera a Concordia. L’azione si risolse favorevolmente per le formazioni partigiane, che dimostrarono l’efficienza raggiunta dal movimento di resistenza nella Bassa, mettendo in allarme i comandi tedeschi e fascisti. Durante il combattimento viene arrestato il “Questurino” che, con una decisione che contraddiceva le norme di prudenza del movimento clandestino, venne portato alla “Cà Bianca”, uno dei maggiori punti di riferimento partigiano. Una volta interrogato, il “Questurino” si dichiarò disposto a collaborare e così, pur essendo tenuto sotto sorveglianza, gli venne concessa una certa fiducia. In quei giorni anche Umbertina si recò alla Cà Bianca e il “Questurino” ebbe modo di vederla. Nel frattempo, si scatenò la repressione per i fatti di Concordia e molti partigiani vennero torturati e uccisi. Quando alla Cà Bianca ci si accorse che il “Questurino” era fuggito, si comprese con sgomento che era una spia infiltrata fascista. Quest’ultimo parla, fa i nomi di tutti coloro che ha visto alla Cà Bianca. La conseguenza è inevitabile: una grossa retata, in cui anche Umbertina viene arrestata, il 10 marzo 1945. Imprigionata in una villa di Concordia utilizzata dai fascisti come prigione, Umbertina venne picchiata e torturata più volte, al fine di farla parlare. Non è l’unica partigiana segregata in prigione, e anche le altre donne che sono con lei vengono interrogate, minacciate, picchiate.

Nessuna di loro parlò e, se la maggior parte di loro venne rilasciata, una sorte diversa spettava a Umbertina, che venne mantenuta prigioniera perché “troppo preziosa”. Un’altra partigiana imprigionata con lei, Adriana Gelmini, fu testimone di quello che accadde in quei giorni: «Le torture subite da quella poveretta dovevano essere state atroci: il volto era coperto di lividi, gli occhi sbarrati, non apriva bocca. La sua espressione, che ricorderò tutta la vita, mi sembrava volesse dire di non parlare, come se la sola volontà rimastale fosse quella di una risposta muta a un nemico così disumano.» La situazione degenerò presto, mentre la liberazione avanzava e i fascisti andavano ritirandosi da Concordia e dalla zona che veniva progressivamente liberata dai partigiani. Il 29 marzo la villa in cui Umbertina era prigioniera venne sgomberata, con conseguente ritiro delle truppe verso Verona. Il silenzio di Umbertina era stato per i fascisti l’ultima sconfitta, il peggior insulto e la peggior sfida. Ancora prigioniera, la partigiana fu trasportata fino a Revere dove venne uccisa e abbandonata per strada, a meno di un mese da quella che sarebbe stata non solo la Liberazione d’Italia, ma anche la sua.

Le vicende di Umbertina e di Gina devo essere, a mio avviso, un monito di coraggio e forza, per noi giovani in modo particolare. Le vicende che oggi abbiamo approfondito, e che concludono la nostra rubrica dedicata al 25 aprile, devono farci riflettere in ogni momento dell’anno, non solo per la Festa della Liberazione. La storia della Resistenza è un tema che va approfondito e studiato, non tanto come un fenomeno politico visto dall’ottica “di sinistra” o “di destra”, ma come un fenomeno storico che ha segnato il nostro Paese e ci ha permesso di arrivare a costruire un sistema democratico che prima del 1945, in Italia, non esisteva. L’esempio di queste due donne all’interno della Resistenza è già di per sé iconico in questo senso: le donne, che fino a quel momento non avevano mai avuto nessun diritto politico e sociale, furono fondamentali per la liberazione dell’Italia.

VIVA IL 25 APRILE!


, , ,