Piazza Fontana

Cinquantadue anni dalla strage.

12 dicembre 1969, una bomba esplode all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana, a Milano, togliendo la vita a diciassette persone e ferendone ottantotto.

L’Italia è sotto shock, inerme, mentre assiste all’attentato alle istituzioni più grave dal secondo conflitto mondiale. È una strage vera e propria, ma avrebbe potuto essere molto peggio: infatti, il luogo deciso per la detonazione è molto frequentato da agricoltori, che depositano e ritirano il proprio denaro, il che fa pensare a tempi di permanenza abbastanza lunghi. Quello che nessuno dice, però, è che, in quel sanguinoso 12 dicembre, gli attacchi allo Stato sono stati ben cinque. Certo, il più drammatico è sicuramente quello di Piazza Fontana, ma un ordigno inesploso viene rinvenuto in Piazza della Scala, sempre a Milano, e, contemporaneamente, delle bombe esplodono in tre diversi punti di Roma.

Eccoci qui, davanti alla data di nascita della strategia della tensione, grande protagonista degli anni di piombo tricolore: il Paese deve essere sull’orlo di un conflitto interno, perché i settori atlantici dell’estrema destra non vogliono nuove riforme sociali. Anzi, deve essere ristabilito l’ordine pubblico, con la cessazione degli scioperi e delle manifestazioni, ma, soprattutto, il Partito Comunista Italiano, seconda compagine più votata, non deve assolutamente arrivare al governo. Appena saputa la notizia della strage, il Presidente del Consiglio Mariano Rumor si rivolge alla nazione attraverso il telegiornale della sera, invitando i cittadini a riconoscersi e a scegliere sempre la legge; il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, invece, è più aspro e incline alla condanna. La responsabilità degli attentati è degli anarchici, secondo Federico Umberto D’Amato, direttore dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero degli Interni.

Inizialmente si pensa anche a una corresponsabilità da parte dei capi dei Servizi segreti militari, ma indagini successive dimostreranno che è stato proprio il dipartimento di D’Amato a depistare le indagini. Una cosa è sicura: la manovalanza è di Ordine Nuovo, gruppo neofascista molto nutrito all’epoca.

Il colpevole è riconosciuto, inizialmente, nell’anarchico Pietro Valpreda, ma viene confermata la sua innocenza nei processi subito seguenti l’incarcerazione. Viene fermato per degli accertamenti anche l’anarchico Giuseppe Pinelli, che muore misteriosamente, precipitando dallo studio del commissario Luigi Calabresi nella questura di Milano. Che si sia trattato di un tragico incidente o di una montatura, non credo lo sapremo mai. Solamente dopo tanti anni e dopo innumerevoli processi, si scopre che gli attentatori di Piazza Fontana sono gli esponenti di Ordine Nuovo veneto Franco Freda, Giovanni Ventura e Delfo Zorzi, condannati dalla Corte di Cassazione negli anni ’90 (ma non punibili perché assolti in maniera definitiva nel 1987), insieme agli artificieri Carlo Digilio e Tramonta.

In tutto questo, gli Stati Uniti d’America erano a conoscenza della situazione. Sapevano addirittura, prima dell’attacco, che questo sarebbe avvenuto, ma per ragioni politiche e strategiche non hanno potuto né dire né fare alcunché.

La domanda sorge spontanea, quindi: la strage di Piazza Fontana si sarebbe potuta evitare? Probabilmente sì. Anche alti gradi dei Servizi segreti italiani e personalità politiche cruciali sapevano, ma per far sì che il fragilissimo equilibrio su cui si reggeva lo Stivale durasse, hanno preferito lasciare che fosse. Ci sono ancora tanti retroscena sugli avvenimenti di quegli anni e sulla strage di Piazza Fontana; spero possano venire alla luce, prima o poi, per avere così un quadro ancora più chiaro di quel periodo in cui la democrazia camminava in equilibrio su un filo di piombo.