«Non siamo dei vuoti a rendere»

Roberto Vecchioni al Memoria Festival.

Dal 15 al 18 ottobre, nonostante il difficile periodo che stiamo attraversando, si è svolta a Mirandola la 5ª edizione del Memoria Festival, che normalmente si sarebbe dovuta tenere nella prima metà di Giugno. Nonostante il rinvio, però, oltre al già forte significato del festival, si è aggiunto un simbolico schiaffo in faccia al Covid-19, come a dire “noi non ti temiamo, la cultura è più forte della paura”. Quest’anno il programma è stato più corto del solito, ma i protagonisti erano tutti ospiti d’eccezione; si è parlato di storia, del passato e della memoria, ma anche di vita, del presente, dei giovani e del futuro. Questi sono, in modo particolare, alcuni dei principali argomenti trattati da Ernesto Franco e Roberto Vecchioni nel loro incontro intitolato “Vita nuova”. Il cantautore è partito con forza e le sue parole si sono concentrate sulla scuola: «La butto subito sulla scuola perché oggi più che mai è un argomento importantissimo». Il messaggio emerso è che «non siamo vasi vuoti, ognuno di noi si porta appresso una sua individualità, un proprio bagaglio di esperienze che funge da eredità spirituale di ciò che è e di ciò che è stato». Durante tutto il suo discorso, intriso di frenetica passione, Vecchioni ha illustrato la sua idea di scuola attraverso parole, esempi e storie. È difficile stare ad ascoltarlo senza ritrovarsi in preda ad una certa invidia per gli alunni che hanno avuto la fortuna di chiamarlo “Prof”.

«La cura della persona nasce e trae nutrimento dall’interesse che gli altri riversano su questa: siamo considerati esseri umani, portatori di un’esclusiva unicità, la quale ci ristora, ci rende unici e ci fa sentire capaci di poter occupare un posto nel mondo, a discapito dei nostri fallimenti». Roberto è il testimone di quella rara filosofia che si interessa genuinamente alle peculiarità di ciascun individuo, e che riesce, là dove intravede una difficoltà, a scorgere anche le risorse e una via di uscita verso l’unicità.

Mentre parlava di scuola era fin troppo facile, soprattutto per noi giovani, riverberare* le sue parole: «l’origine del sostantivo “scuola” viene dal greco e significa “tempo libero” e “gioia di esserci”. Con il passare del tempo, però, la scuola è diventata, specialmente in Italia, un intruglio di situazioni complicate, che, giorno per giorno, perde la sua originaria capacità di donare senso alle realtà degli studenti. Oggi si insegna ad andare in fretta, a fare prima degli altri e a vincere; la scuola di oggi tratta dei singoli obbiettivi, millesimali e millimetrici, e non insegna quel valore umano che dovrebbe spronarci a voler conoscere, a voler imparare e a voler crescere nel mondo come cittadini capaci di abitarlo degnamente. Con questo non voglio dire che l’istruzione debba essere solo spensieratezza, ovviamente essa è fatta anche di studio, di impegno e di nozioni, ma ciò che realmente conta è che la scuola è, e deve essere, quel mezzo utile a ingigantire le potenzialità della mente e del cuore».

La chiacchierata tra Franco e Vecchioni, a un certo punto, uscendo dagli argini del tema scuola, ha dilagato andando a toccare molteplici argomenti, passando anche per la musica e la filosofia; Roberto ha parlato delle parole, del loro valore e della loro storia. Quello che stupisce è la sua capacità di adattarsi al linguaggio che trova negli altri: «I ragazzi di oggi non sono padroni di un vocabolario ricco quanto quelli di venti o trent’anni fa, e non per una loro colpa, ma per il modo in cui si sta evolvendo il nostro mondo e il nostro modo di pensare. Tuttavia questi possiedono il diritto di essere ascoltati e di farsi ascoltare».

Roberto ha spiegato come una certa evoluzione del pensiero moderno abbia ridotto all’osso la comunicazione, rendendola sempre più essenziale, ma, «sebbene una capacità maggiore di esprimersi porti ad una migliore possibilità di essere compresi, le parole dei ragazzi paiono avere più peso, sembrano essere pregne di un significato che cerca la base delle cose. Ciò che questi esprimono è quindi fame di fondamenta, il che non può essere biasimato: la realtà post-ideolgica nella quale ci ritroviamo a vivere ha in parte distrutto i grandi miti che caratterizzavano il secolo scorso, e non c’è da stupirsi che i ragazzi, in mezzo ad un mondo che pare non avere una sua solidità, cerchino semplicità nel loro alleato quotidiano, il linguaggio».

Il dialogo tra i due è proseguito per quasi un’ora intera, e nel finale c’è stato spazio per una sola domanda, che arrivava da una signora tra il pubblico. Il concetto espresso, anche se di discussione quotidiana, apre diversi spiragli di ragionamento: «Come deve evolversi il metodo di insegnamento nei confronti dei ragazzi? Esiste il modo di ricreare nel modello dell’insegnante un’autorità che essi possano seguire?». La risposta non si è fatta attendere: «Bisogna rendersi conto che ad oggi non si può insegnare con una formula o con un’autorità. L’autoritarismo è qualcosa che non ha ragione di essere; il classico “se non stai zitto ti metto due” è una scemenza. Quello di cui c’è bisogno è autorevolezza. La differenza sta nel fatto che l’autorità è propria dei dittatori, mentre l’autorevolezza risiede nella “credibilità della tua vita” e nella passione che metti insegnando. La soluzione migliore per la scuola di oggi quindi è l’autorevolezza e la credibilità, che sono l’unico modo per buttare giù tutti i muri generazionali e quelli creati dall’idea che tra studenti e professori debba esserci per forza una barriera». L’abbattimento dei muri, una vita nuova: questo è quello che ci ha insegnato Roberto Vecchioni in “solo” un’ora. Una lezione che non bisogna dimenticare.


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